Il recente caso dell’Embraco, società del gruppo Whirpool che ha licenziato 500 lavoratori italiani trasferendo la sua attività in Slovacchia ripropone per l’ennesima volta il tema dell’appetibilità dell’Italia per gli investitori esteri.
Ma sono anche altre le aziende che hanno deciso di lasciare un paese che non offre da molti anni vantaggi per gli insediamenti industriali. E questa tendenza non è recente bensi’ perdura da anni; centinaia di aziende, inclusi marchi molto noti, sono passate di mano da imprenditori italiani a multinazionali estere le quali si impegnano a mantenere i siti produttivi e le maestranze in Italia ma lo fanno sempre a termine. E’ il caso ad esempio della Indesit , anche questa ceduta a suo tempo alla Whirpool,che ancora nel 2013 prometteva il differimento di 5 anni dei licenziamenti:
Buone notizie per i 1.400 dipendenti della Indesit, che fino a prima “dell’ipotesi di accordo” firmato nella tarda serata dello scorso 3 dicembre, rischiavano di perdere il posto di lavoro. Lo storico marchio che produce elettrodomestici ha riorganizzato il suo asset e ritirata la procedura di licenziamento per circa 1.400 lavoratori e la redistribuzione delle produzioni fra Italia, Polonia e Turchia. E’ una nota della Fim-Cisl diffusa al termine degli incontri al ministero dello Sviluppo economico a confermare quanto appena detto, ma dagli stessi sindacati (Fiom-Cgil) nessuna sottoscrizione d’intesa. Questo perchè, da quello che è stato scritto nel comunicato: “L’accordo siglato oggi, non solo determina il superamento della procedura di licenziamento collettivo per 1.400 dipendenti avviata dalla Indesit, ma impegna l’azienda alla stabilità occupazionale per cinque anni, fino alla fine del 2018”. (fonte: BiancoLavoro)
E ora che siamo nel 2018 i nodi sono arrivati al pettine. Certamente non è possibile restare indifferenti alla tragedia umana delle famiglie che oggi si ritrovano senza reddito a causa della perdita del lavoro ma nel contempo non va sottaciuto il fatto che i lavoratori non si trovano in questo come in molti altri casi di fronte ad un licenziamento inatteso, dalla sera alla mattina! Il vero problema è piuttosto quello della impossibilità, seppure nell’arco di ben 5 anni, di trovare un posto di lavoro alternativo per chi non è piu’ giovane in una nazione dove neppure i giovani hanno facile accesso al mercato del lavoro e la disoccupazione, giovanile e non, restano alti.
Il costo del lavoro
Uno dei maggiori ostacoli da sempre che frenano l’occupazione è sicuramente l’alto costo del lavoro rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Nel grafico che segue sono riportate le componenti del costo del lavoro prese in considerazione per le comparazioni (fonte: Eurostat, Statistics explained)
Le componenti essenziali sono:
- Salari e stipendi lordi
- Gli oneri sociali a carico del datore di lavoro
- Altri costi quali imposte, formazione ed altri (indumenti di lavoro ecc.)
Si evidenzia poi come al dipendente il guadagno netto sia dato dal salario o stipendio lordo dopo la deduzione della quota di oneri sociali a suo carico e delle imposte sul reddito; queste diverse componenti saranno oggetto di ulteriore disamina in quanto la loro disparità nei vari paesi anche all’interno dell’Unione Europea costituisce un elemento importante non solo in relazione al costo del lavoro per l’impresa e le conseguenti fughe all’estero bensi’ anche per i lavoratori che sono indotti a lasciare l’Italia non solo per la scarsa occupazione ivi disponibile ma anche per i bassi livelli salariali. L’anomala situazione che si osserva è infatti l’incongruenza tra un alto costo del lavoro per le aziende ed una bassa remunerazione per i lavoratori. In particolare gli stipendi medi annuali all’ingresso nel mondo del lavoro in Italia sono in assoluto i peggiori come si evince dalla tabella qui riportata (fonte: repubblica.it)
In relazione ai casi di maggiore attualità in questi giorni di trasferiemnto in altri paesi nell’ambito di paesi europei di imprese multinazionali che cosi’ lasciano l’Italia si parla molto di Slovacchia (caso Embraco) e Polonia (Eaton di Monfalcone). Di particolare interesse risulta quindi il raffronto tra l’Italia e questi paesi che evidenzia delle discrasie importanti per quanto concerne il costo del lavoro. Nel grafico a fianco la prossimità del valore concernente l’Italia con la media dei paesi dell’Eurozona (EU19) mostra anzitutto l’effetto dela moneta unica. Il costo medio italiano risulta piu’ elevato poi della media di tutti gli attuali membri europei (EU28) e presenta un gap elevatissimo rispetto ai paesi con i valori piu’ bassi. Con il costo di un dipendente nella location italiana l’impresa che si trasferisce in Slovacchia potrà infatti impegare ben 2,5 lavoratori e addirittura 3,1 nel caso della Polonia.
Paradossale poi la situazione per cui in Italia ad un costo del lavoro piu’ elevato non corrisponde un maggior reddito per i lavoratori dipendenti italiani risppetto a quelli degli altri paesi; il rapporto lordo/netto italiano è infatti uno dei piu’ alti e questo comporta necessariamente una minor capacità di spesa con tutto cio’ che ne consegue a livello di ripresa economica.
La tassazione in Italia
Oltre ad un costo del lavoro elevato anche la tassazione, sia individuale che societaria, è tra le piu’ elevate. Se, continuando il paragone con i due paesi dell’est europeo di maggior attualità in questi giorni, prendiamo in considerazione le aliquote minime vediamo che in Italia quella sulle persone fisiche è piu’ elevata di di 4 punti rispetto a quella della Slovacchia e di 5 punti rispetto a quella della Polonia mentre la massima supera di ben 11 punti quella polacca e addirittura di 18 punti quella slovacca! Non molto diversa la situazione per quanto concerne la tassazione societaria con un’aliquota italiana che varia dal 27,90% fino al 32,50% in base alla regione di localizzazione e alla tipologia di impresa; la differenziazione è data dall’IRAP che si applica peraltro su un reddito aumentato del costo del personale e degli interessi passivi e quindi è di fatto molto superiore al valore nominale nella sua effettiva applicazione.
Per chiarire meglio quelle che sono le differenze effettive per un’impresa che decida alternativamente di localizzarsi in uno dei tre paesi considerati (Italia, Slovacchia e Polonia) è utile fare un’ipotesi numerica concreta partendo da una struttura organizzativa omogenea, ossia lo stesso numero di lavoratori dipendenti, gli stessi investimenti in immobilizzazioni soggetti ad ammortamenti ed a parità di altri costi operativi senza considerare peraltro gli efffetti della differenza tra valute nazionali laddove in Polonia è ancora in uso la valuta locale mentre Italia e Slovacchia hanno adottato l’Euro.
Di tutta evidenza per l’Italia l’effetto dirompente dato dalla combinazione del maggior costo del personale e da una tassazione esorbitante in quanto oltre al reddito base l’IRAP va ad incidere anche proprio sul costo del lavoro e sugli interessi passivi penalizzando quindi doppiamente la localizzazione nel paese. Da un aliquota nominale minima del 27,90% si passa infatti nell’esempio riportato ad una incidenza effettiva quasi doppia, pari al 53,30%; si allontanano quindi ulteriormente i valori della tassazione sia per Slovacchia che Polonia che risultano effettivamente meno della metà di quelli italiani. Ma l’aspetto di maggior rilievo di questo effetto combinato è la misura dell’Utile netto dopo le imposte che nel paese slovacco risulta pari 3,7 volte quello della medesima impresa localizzata in Italia e sale 4,1 volte in Polonia!
Grafici riassuntivi
Ipotesi di un’impresa con 100 mio.Euro si ricavi e struttura organizzativa omogenea localizzata nei diversi paesi
Conclusioni
Quanto sopra esposto riconferma quanto poco sia conveniente per una multinazionale estera decidere di localizzare la sua attività in Italia sulla base semplicemente della convenienza economica, sia per l’alto costo del personale – decisamente sproporzionato rispetto ad altri paesi come ad esempio Slovacchia e Polonia – ma anche e soprattutto per gli abnormi livelli di tassazione di cui sia a livello governativo che giornalistico si tratta sempre in mdo molto poco chiaro. Da non dimenticare qui il fatto, vergognosamente sottaciuto dal ministro Calenda e da tutto il governo per mera opportunità elettoralistica, che le multinazionali che pure giungono in Italia a seguito di acquisizioni sempre piu’ numerose molto spesso pongono negli accordi contrattuali un limite temporale all’impegno di mantenimento delle maestranze italiane e di conseguenza della localizzazione nel paese.
Ma se la convenienza alla delocalizzazione è cosi’ evidente perché ancora molte imprese, incluse quelle italiane, non hanno lasciato il paese?
Posto che le statistiche dimostrano che anche in ambito strettamente italiano le delocalizzazioni sono tendenzialmente in aumento negli ultimi anni, occorre considerare che rispetto ad una multinazionale l’impresa italiana, soprattutto con le ridotte dimensioni che caratterizzano la maggior parte delle realtà economiche nazionali, si trova di fronte a difficoltà di gran lunga superiori sia in termini di costo che per la necessità in particolare per le aziende a base familiare di trasformare la scelta imprenditoriale in una scelta di vita con il trasferimento all’estero di uno o piu’ componenti della famiglia.